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La fenomenologia di Vivian Sobchack in Fish Tank (2009) di Andrea Arnold

Di fronte all’esperienza filmica, è difficile spiegare in maniera chiara e razionale in che modo un film riesca a provocare delle sensazioni ed emozioni nello spettatore. A tal proposito, la critica cinematografica americana Vivian Sobchack, nel suo libro The Address of the Eye. A Phenomenology of Film Experience (1992), intraprendendo una lettura dell’esperienza filmica in chiave filosofica, cerca di descrivere l’esperienza cinematografica, definendola come unevento fenomenologico. L’autrice afferma che è proprio l’incertezza delle sensazioni che proviamo davanti a uno schermo a spingerci ancora di più a riflettere su ciò che il cinema rende visibile ai nostri occhi e su come le immagini cinematografiche scatenino in noi delle reazioni quasi incontrollabili.

     In The Address of the Eye, l’autrice statunitense definisce il film come l’espressione di una doppia esperienza, quella vissuta dai personaggi sullo schermo, che a sua volta, genera il fenomeno dell’esperienza cinematografica per lo spettatore. Quando ci troviamo davanti a uno schermo, ci viene presentata l’esperienza diretta di una specifica modalità di esistenza e di fronte a quest’esperienza, la nostra mente e il nostro corpo reagiscono di getto, mentre ci immergiamo nella potenza delle immagini filmiche, ascoltiamo i suoni che le accompagnano, interpretandole e facendole nostre. Secondo Sobchack, il cinema funziona come un ponte fenomenologico che unifica intersoggettivamente il film e lo spettatore l’un l’altro e con il mondo.

     Applicando la teoria cinematografica di Sobchack ad un film, impariamo a vedere e a comprendere realmente la vera forza fenomenologica del cinema.  A questo proposito, il drama-film inglese Fish Tank (2009) di Andrea Arnold, vincitore del Premio della giuria del 62º Festival di Cannes e del Premio BAFTA per il miglior film britannico, consente di applicare una ‘sperimentazione fenomenologica’. Quest’esperienza filmica, infatti, permette alla protagonista Mia, una quindicenne ribelle e in cerca di una via di fuga da un’adolescenza soffocante, una madre assente e il compagno violento, di sperimentare il proprio mondo tramite uno schermo, offrendo contemporaneamente allo spettatore il privilegio di percepire e conoscere la sua realtà. Il film, quindi, ci invita a considerare e a riflettere sulle nostre reazioni emotive di fronte a un’esperienza che non ci appartiene, ma che in qualche modo, sentiamo nostra. 

      Ispirandosi allo stile cinematografico della British New Wave degli anni 60’, Andrea Arnold, vincitrice del premio Oscar per il cortometraggio Wasp (2005), ci presenta in Fish Tank la cruda realtà di un’Inghilterra che cade a pezzi, in cui madri single e bambini senza educazione devono convivere con l’abuso di alcol, droghe e l’estrema povertà delle case popolari. Ma all’interno di questa realtà decadente, Mia sta al centro dell’inquadratura, e non viene mai dimenticata dalla cinepresa.

fish tank
fish tank

Sin dalla prima scena, conosciamo Mia e la specificità della sua esistenza. Inquadrata in primo piano, ascoltiamo Mia mentre respira affannosamente, e la guardiamo, mentre sta sola in una stanza vuota, telefonando insistentemente alla sua migliore amica, cercando, invano, di far pace con lei. Dalla finestra della sua stanza, Mia osserva il mondo che la circonda, permettendoci di osservarlo insieme a lei. Successivamente, la telecamera inquadra i suoi passi saldi, mentre, delusa, attraversa velocemente e con rabbia il cortile. Improvvisamente, insieme a Mia, sentiamo alcune voci cantare in sottofondo. Il primo piano del suo viso enfatizza il suo senso di disgusto, mentre osserva giudicante un gruppo di ragazze che ballano in un parcheggio. Ancora una volta, la telecamera si concentra a inquadrare una Mia sola, dimenticata da tutti e abbandonata a sé stessa, mentre le ballerine, in forte contrasto, emergono nel loro senso di unione e intesa. Le inquadrature iniziali sono infatti fondamentali per presentare Mia al pubblico: è una giovane donna arrabbiata, impulsiva e vulnerabile. Sin da subito, scopriamo che è solitaria e che non le importa di cosa pensino gli altri di lei: è presuntuosa, scontrosa, ma sensibile e divertente: è Mia.

Attraverso il suono dei respiri e dei passi di Mia, e tramite le riprese in soggettiva e i primi piani, lo spettatore sta accanto a Mia, divenendo testimone dell’unicità della sua esistenza. E di fronte a quest’esistenza, lo spettatore riflette sull’esperienza di Mia e sulla propria esperienza in quanto essere umano. Nelle parole di Vivian Sobchack, “l’esperienza filmica diventa uno spazio di condivisione”, sperimentato fenomenologicamente sia da Mia sia dallo spettatore. Quando Mia telefona alla sua amica, speriamo insieme a lei in una risposta, in una rappacificazione. Mentre Mia cammina per il cortile, camminiamo insieme a lei. Quando le ballerine si esibiscono per Mia, si esibiscono anche per noi. Il mondo di Mia va oltre lo schermo; ci porta con sé, come se stessimo condividendo con lei il suo tempo e la sua realtà. Leggere sulla teoria cinematografica, comprenderla e applicarla al cinema, ci rende dunque più capaci di imparare a interpretare le righe di un film e di apprezzarlo ancora di più, perché il cinema è il fenomeno dello spirito umano, in quanto colloca lo spessore dell’esperienza umana al centro del suo cuore, permettendo allo spettatore di essere toccato e commosso da questo spessore.

Debora Zappala

Debora Zappala,

Neolaureata in Film Studies e Russo presso la Queen Mary University of London.

Appassionata di cinema mondiale e lingue, aspira alla critica cinematografica.